Un’enorme quantità di informazioni, alcune vere, altre false e altre ancora dannose, stanno circolando su Facebook, WhatsApp, Twitter e così via. L’argomento preferito è ovviamente il coronavirus.
Milioni di persone, si formano un’opinione e, di conseguenza, si comportano, leggendo fake news sui social senza alcuna protezione culturale dal contagio da notizie false o da consigli dannosi per la propria salute. Un fenomeno le cui conseguenze sono ben visibili in Italia, dopo che molte persone hanno incoscientemente diffuso post e tweet tranquillizzanti e falsi sulla presunta innocuità del coronavirus.
Il post dello “zio laureato”
Ma come si propaga il contagio di una fake news in rete? Come arriva nel cervello delle persone? Può subire mutazioni?
La BBC ha seguito una fake news dal focolaio fino alla pandemia, scoprendo anche numerose mutazioni. Ecco la storia di un post virale…
Soprannominato il post dello “zio laureato“, nasce il 7 febbraio dal profilo Facebook di un uomo britannico di 84 anni e poi passa all’account Instagram di un presentatore televisivo del Ghana. Sembrerebbe un post legittimo perché la fonte sembra attendibile: uno zio laureato!
Viene poi condiviso in un gruppo chiamato Happy People, con quasi 2.000 membri. Il post racconta di uno zio medico che lavora a Wuhan e che ha chiamato il nipote per fornirgli tutta una serie di consigli. Tra questi “riconosci il virus se hai il naso che cola” e “bevi più acqua calda” e “cerca di non bere ghiaccio“. Tutte affermazioni insensate e prive di ogni evidenza scientifica.
I primi casi di contagio
Il post comincia a farsi strada in rete quando un uomo di nome Glen, in India, lo inserisce in diversi gruppi di Facebook, dove subisce la prima mutazione: Glen dice di aver ricevuto una telefonata dallo zio e aggiunge alcune informazioni prive di fondamento e fuorvianti come la descrizione della progressione della malattia. Secondo i medici, i sintomi e la gravità del coronavirus sono molto variabili e non esiste un modello esatto di progressione.
Il contagio diventa pandemia
Il 27 febbraio, un inglese di nome Peter, rende il post virale.
Scrive un post simile a quello di Glen, ma aggiunge altre informazioni, alcune delle quali completamente sbagliate. Il post di Peter si diffonde rapidamente, tanto da attirare l’attenzione di siti specializzati nella verifica di informazioni (Full Fact e Snopes). Entrambe le organizzazioni hanno dettagliatamente dimostrato la falsità di molte delle affermazioni contenute nel post.
Il post viene condiviso quasi 350.000 volte e compaiono numerose mutazioni. Da post dello “zio laureato” diventa post di “un membro del consiglio di amministrazione dell’ospedale di Stanford” e anche post del “fratello dell’amico di una sorella di un amico che è nel consiglio di amministrazione dell’ospedale di Stanford“. L’ospedale di Stanford (Stati Uniti) ha smentito categoricamente di avere qualcosa a che fare con quanto riportato nel post.
Poi, muta in un po’ tutte le lingue del mondo, sempre con nuovi consigli fuorvianti o dannosi, come quello di autocontrollare la positività al coronavirus ogni mattina trattenendo il respiro per più di 10 secondi.
La cattiva informazione rovina la vita
Il post in questione sta ancora girando in rete, con nuove mutazioni, anche in italiano. Impossibile immaginare quante altre persone contagerà prima che il cervello sviluppi gli anticorpi per riconoscere e distruggere queste fake news.
Prima di allora, non sarebbe una brutta idea quella di ricordare sempre che una cattiva informazione rovina la vita, promuove l’odio, danneggia la salute delle persone e fa del male alla democrazia. Una considerazione che riguarda non più solo i giornalisti, ma anche tutti gli utenti social dalla condivisione facile e spensierata.
Qualcuno si ricorda ancora quello che dicevano i nostri nonni? “Prima di dire una stupidaggine, conta almeno fino a dieci…”
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