La grande partita sul mercato del petrolio

Sul mercato del petrolio è in corso uno scontro feroce tra i giganti dell’economia mondiale. Gli esiti nel breve termine sono incerti e imprevedibili ma, nel medio termine, il risultato è già stato scritto.

Se torniamo indietro di circa un anno e mezzo, il prezzo internazionale del greggio WTI era di 106 dollari al barile. Attualmente, il prezzo ha raggiunto il livello di 33 dollari.

I fattori che hanno provocato un crollo tanto drammatico sono numerosi ma, quello determinante è stato la grande produzione di petrolio da scisto (shale oil) negli Stati Uniti. Dal 2010 al 2014, la produzione di petrolio negli Stati Uniti è aumentata da 5,482 milioni di barili al giorno a 8,663 milioni, una crescita del 58%. Gli Stati Uniti sono diventati il ​​terzo più grande paese produttore di petrolio nel mondo.

A questo si è aggiunta la produzione dell’Iraq, aumentata da 2,358 milioni di barili al giorno nel 2010 a 3,111 milioni nel 2014 (un aumento del 32%), grazie al rilancio della sua industria petrolifera del dopoguerra.

La domanda globale di petrolio è rimasta sostanzialmente invariata, in crescita del 1,1% o addirittura in declino in alcune regioni durante il 2014.

La strategia dell‘Arabia Saudita era di sfruttare il proprio basso costo di estrazione per eliminare i concorrenti

Di conseguenza, mancanza di domanda ed eccesso di offerta hanno creato un surplus globale.

In risposta alla caduta dei prezzi, i membri dell’OPEC si sono incontrati nel novembre del 2014, decidendo di mantenere invariati i livelli produttivi. Una decisione sostenuta dall’Arabia Saudita, il membro più influente del cartello. Una mossa che ha spinto i prezzi del WTI sotto i 70 dollari, con grande disappunto della Russia, della Nigeria e del Venezuela, che avevano bisogno di prezzi non inferiori ai 90 dollari per mantenere i propri obbiettivi economici.

Ma la strategia dell‘Arabia Saudita era di sfruttare il proprio basso costo di estrazione per eliminare i concorrenti con costi più alti (come i produttori americani di shale oil). Prezzi del petrolio in discesa avrebbero condannato a morte molti dei suoi concorrenti. Il paese, forte di 2,5 miliardi di dollari di riserve valutarie, si è preparato per resistere a prezzi di 20 dollari al barile.

Una strategia perfetta e un esempio di un prezzo predatorio utilizzato da un leader di mercato, che mostra il suo potere dominante a tutto il mondo e che ottiene l’effetto di ridurre il numero di impianti di perforazione negli Stati Uniti da 1.931 (settembre 2014) a 737 (dicembre 2015).

E adesso? Nel 2016 è assai probabile che l’offerta mondiale di petrolio diminuirà, anche se sul mercato grava una pesante incognita: l’Iran. L’abolizione delle sanzioni economiche occidentali porterà il paese a raddoppiare la propria produzione.

Una evenienza che non piace per nulla all’Arabia Saudita che non vuole perdere quote di mercato a favore del suo peggior nemico, evenienza che verrebbe favorita se tagliasse la propria produzione per sostenere i prezzi. Per questo motivo, l’Arabia Saudita continuerà a pompare petrolio a tutto spiano, anche a prezzi molto più bassi, attingendo dalle proprie riserve valutarie per coprire gli inevitabili ammanchi di bilancio. Di certo, i tafferugli politici tra Iran e Arabia Saudita influenzeranno in modo determinante i prezzi nei prossimi mesi.

Alla sempre maggior incertezza causata dalle crescenti tensioni militari tra Arabia Saudita e Iran si aggiunge uno spettro che aleggia sul mercato: molti titoli spazzatura che sorreggono i produttori di scisto americani sono prossimi ad un crollo. Una bomba che potrebbe innescare la fine di tutta la produzione marginale e l’inizio di una rapida inversione dei prezzi.

Come se non bastasse, gli hedge funds stanno cavalcando con decisione il trend al ribasso del mercato petrolifero nel breve termine.

In poche parole, i prezzi del petrolio stanno scontando lo scontro di contrastanti interessi strategici delle maggiori potenze mondiali. L’Arabia Saudita che vuole eliminare dal mercato una volta per tutte i produttori marginali di petrolio, Stati Uniti compresi. Gli Stati Uniti che vogliono danneggiare la capacità produttiva della Russia e dell’ISIL. L’Iran che vuole approfittare della situazione per recuperare quote di mercato perse in tutti questi anni di isolamento internazionale.

Uno scenario assai complicato che fa presagire una serie di effetti a catena le cui conseguenze sono difficilmente prevedibili.

L’Arabia Saudita è pronta a sostenere la propria strategia ben oltre il 2016, cosa impossibile per molti altri paesi. Perciò è presumibile che nel corso di quest’anno qualcuno sarà costretto a cedere e quindi a cercare un accordo sui prezzi, accordo che sarà però dettato dal vincitore, che tutti i pronostici danno essere l’Arabia Saudita. Allora, la musica sul mercato del petrolio cambierà e i prezzi ricominceranno a salire.

I bassi prezzi del petrolio di oggi, sono soltanto una mossa nella partita a scacchi che i padroni dell’oro nero stanno giocando. Il risultato della partita è già scritto e c’è da scommettere che i mancati profitti del petrolio a 30 dollari verranno ampiamente recuperati, con tutti gli interessi del caso. E indovinate un po’ chi dovrà pagarli…

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