Disoccupati per colpa della globalizzazione?

Esiste un sentimento diffuso circa la correlazione tra la perdita di posti di lavoro e la globalizzazione. Cosa c’è di vero?

La globalizzazione, in particolare la Cina, è una sottrazione dei posti di lavoro occidentali.

I dibattiti su questo argomento, che ha riguardato più da vicino l’industria manifatturiera, si sono sprecati e, in molti casi, la retorica l’ha fatta da padrone.

Recentemente, durante la campagna presidenziale americana, la questione è finita sotto i riflettori quando Donald Trump ha accusato la Cina di rubare posti di lavoro americani. Viene spontaneo domandarsi se lo spostamento dei posti di lavoro dall’Occidente all’Oriente sia un effetto della globalizzazione o dell’efficienza e dell’automazione.

C’è anche l’effetto dell’aumento della produttività

È incontrovertibile che numerosi posti di lavoro siano stati persi a causa della delocalizzazione. Tuttavia, una recente ricerca suggerisce che la cosa è stata forse sovrastimata.

Secondo il Financial Times, soltanto il 13% dei circa 5,6 milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti, che si sono persi nella produzione tra il 2000 e il 2010, è stato causato dalla globalizzazione, mentre tutti gli altri sono un effetto dell’aumento della produttività.

Non c’è dubbio che i settori labor intensive, come per esempio quello del tessile o dei mobilifici, siano stati colpiti duramente dall’espansione del commercio globale. I bassi salari dei lavoratori asiatici sono stati la leva che ha provocato questo fenomeno ma, negli ultimi tempi, il costo del lavoro è aumentato e, anche la Cina, il Vietnam e il Bangladesh, stanno perdendo posti di lavoro.

Tra l’altro, negli ultimi anni alcune lavorazioni sono tornate in occidente (reshoring). Infatti, le imprese volevano essere più vicine ai loro mercati, per accorciare la catena degli approvvigionamento o, più semplicemente, per ritrovare una maggiore qualità. Ma soprattuto, hanno giocato favorevolmente i minori costi di produzione, non a causa dell’abbassamento dei salari, ma della maggiore automazione e, quindi, della maggior produttività. Purtroppo, quest’ultimo fenomeno non ha interessato l’Italia.

Si prenda il caso del settore automobilistico, che ha pesantemente investito in automazione per la competizione tra produttori di diversi paesi. La tendenza verso l’automazione permette alle imprese europee, americane e anche ad un numero sempre più alto di imprese cinesi, di competere nello scenario mondiale. Ma, ahimè, il processo distrugge anche posti di lavoro.

L’automazione globalizzata

Se la globalizzazione ha avuto, senza dubbio, un forte impatto sui lavoratori con i salari più bassi e le mansioni meno qualificate, l’aumento della produttività delle imprese ha avuto un impatto ancora maggiore.

Dovremmo chiudere alla globalizzazione e, ancora più decisivo, dovremmo ostacolare l’aumento di produttività per proteggere i posti di lavoro?

A buon senso, farlo potrebbe essere un suicidio nel lungo termine ma, trovare una soluzione alla perdita di posti di lavoro è tutt’altro che semplice. Una maggiore automazione distrugge posti di lavoro ma, ne crea altri, che richiedono però manodopera più qualificata, istruita e formata. Il bilancio tra posti a bassa produttività persi e posti qualificati guadagnati, dovrebbe essere il punto centrale nell’agenda del mondo politico per i prossimi anni.

Di certo, la politica delle aziende per aumentare la redditività attraverso la riduzione dei costi salariali, de-localizzando la produzione, ha fatto il suo tempo. Forse, la nuova sfida che attende il mondo del lavoro nei prossimi anni sarà l’automazione globalizzata.

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