Il mercato del petrolio ha abituato gli operatori di lunga data a non sorprendersi mai.
Come quando, a fronte di un calo della domanda mondiale di 5 milioni di barili al giorno e un aumento della produzione da parte dei paesi non aderenti all’OPEC di altrettanti 5 milioni di barili al giorno, i prezzi del petrolio, anziché scendere, aumentarono da 17 a 26 dollari al barile. Erano gli anni tra il 1979 e il 1985 e questo andamento illogico si verificò a seguito della riduzione di 15,5 milioni di barili OPEC. Infatti, da 30,5 milioni di barili di produzione nel 1979, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio passò ai 15 milioni di barili nel 1985.
Questa politica fece alzare i prezzi a scapito della produzione e spinse le grandi compagnie petrolifere ad aumentare i loro investimenti nel settore, con un’esplosione delle perforazioni che passarono dalle 66.000 nel 1979 alle 107.000 nel 1984.
Tuttavia, quando l’OPEC cessò questa manipolazione, i prezzi tornarono rapidamente indietro al loro livello di equilibrio economico. Questo sfortunato periodo ha però lasciato il segno: una sovracapacità nel settore che ha portato avanti e accelerato lo sviluppo di risorse petrolifere non necessarie e che ha creato un significativo eccesso di capacità all’interno dell’OPEC stessa.
Ma il mondo non se ne è accorto perché dal 1991 in poi, la crescita della domanda prima e l’emergere dell’economia cinese poi, hanno assorbito tutto l’eccesso e le riserve create tra il 1979 e il 1985. Nel nuovo secolo i prezzi hanno cominciato a crescere, non per manipolazioni, ma per la forza della domanda. Nel 2005 i prezzi del petrolio, in media di 54 dollari al barile, erano quasi il doppio rispetto a inizio decennio. In quell’anno il mercato del petrolio iniziò una crescita ininterrotta durata quasi un decennio.
Mentre i prezzi volavano, insieme ai nuovi investimenti per nuovi pozzi in grado di far fronte ad una domanda che sembrava incontenibile, sul mercato successe qualcosa di inaspettato: la rivoluzione dello shale oil negli Stati Uniti.
Grazie a questa nuova risorsa, tra il 2010 e il 2014, la produzione degli Stati Uniti è cresciuta a 4,2 milioni di barili al giorno, una quantità sufficiente per soddisfare la crescita della domanda globale fino ad allora, ma che con la crisi attuale e con la crescita della produzione OPEC ha portato al recente crollo dei prezzi.
Esistono differenze o analogie tra ciò che è accaduto nel 1979-1985 e quello che è successo tra il 2005 e il 2014?
Da quanto visto, nel primo caso il mercato era frutto di una manipolazione e quindi destinato ad un crollo, nel secondo caso era per lo più guidato dai fondamentali del mercato. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, l’OPEC non può considerarsi certo con le mani pulite. Infatti, il mercato è stato scardinato da fattori geopolitici, che fino al 2015 avevano bloccato l’arrivo del petrolio da paesi OPEC come l’Iraq e l’Iran. Il petrolio di questi due paesi avrebbe dovuto arrivare sul mercato molti anni prima ma, a causa di decenni di guerre e contrapposizioni politiche, si è riversato tutto insieme lo scorso anno e nel 2016.
E adesso cosa succederà? Certamente il mercato sta cercando un riequilibrio, con la produzione di petrolio di scisto drammaticamente ridimensionata ma con una decisa riluttanza dell’OPEC a ridurre la produzione. Un riequilibrio tutt’altro che tempestivo, che porterà ad un enorme accumulo di scorte globali, un peso che graverà sul mercato anche quando la domanda crescerà e le forniture si ridurranno.
Nonostante alcune analogie, non c’è da sperare che si ripeta il boom petrolifero del 1980, dal momento che il mercato è strutturalmente diverso da allora. Entro il 2017 la domanda e l’offerta globale troveranno il loro equilibrio e saranno le scorte accumulate fino ad allora a decidere i prezzi che, probabilmente, si stabilizzeranno tra i 60 e i 70 dollari al barile nel lungo termine… crisi geopolitiche permettendo.