Erano undici mesi che l’OPEC cercava di far salire i prezzi del petrolio, minacciando azioni e facendo promesse che non avevano spaventato nessuno, con i prezzi dell’oro nero del tutto indifferenti.
Ma quando, il 30 novembre, ha annunciato un accordo per tagliare la produzione, i prezzi sono subito schizzati del 12%. Anche perché, con la partecipazioni anche dei paesi non aderenti all’OPEC, la riduzione della produzione globale ammonta sulla carta a 1,8 milioni di barili al giorno (1,2 milioni dai paesi aderenti e 600.000 dai non aderenti).
Tuttavia, quando le quotazioni del WTI si avvicinano all’importante livello di 52 dollari al barile (oggi siamo a 51,3), il mercato inizia a preoccuparsi per i fondamentali.
Come in passato, esistono forti dubbi sul rispetto effettivo degli accordi, dal momento che il comportamento dei paesi aderenti e non, è spesso stato discutibile a riguardo.
A novembre, anche mentre la riunione OPEC era in corso, i membri pompavano petrolio, raggiungendo una produzione record di 34,19 milioni di barili al giorno. La Russia, mentre invocava a gran voce la necessità di un taglio, aumentava la propria produzione a 11,12 barili al giorno (quasi il massimo da trent’anni a questa parte).
Insomma, rimangono ancora grandi punti interrogativi sull’attuazione e, soprattutto, sulla minaccia dei produttori di petrolio di scisto negli Stati Uniti. Nelle ultime settimane hanno aggiunto nuove piattaforme petrolifere e, dopo la crisi che li ha decimati, i produttori americani di scisto sono più snelli e competitivi che mai.
L’OPEC vorrebbe prezzi del petrolio tra i 55 e i 58 dollari al barile, per rimpinguare le casse dei propri membri, ma senza creare i presupposti economici che possano scatenare la produzione di scisto negli Stati Uniti. Forse, solo Babbo Natale ci può riuscire…