Per il commercio su scala globale siamo alla frutta.
Negli Stati Uniti, il neo-eletto presidente, ha più volte dichiarato di voler instaurare misure protezionistiche per il mercato interno, così come l’Europa che, il mese scorso, ha faticato parecchio per ratificare un accordo di libero scambio con il Canada. Un accordo che aveva comportato sette anni di lavoro, ha rischiato di andare in fumo per l’opposizione del governo regionale della Vallonia, una regione di lingua tedesca del Belgio.
Tra le popolazioni delle nazioni più sviluppate del mondo si è diffuso un vasto sentimento anti-globalizzazione, che porta le persone a vedersi come le vittime del commercio con i paesi in via di sviluppo, con la reazione di abbracciare politiche isolazioniste.
Non basta che i benefici del libero commercio si siano diffusi a macchia d’olio, dal momento che è diffusa anche la percezione che il rallentamento della crescita economica sia un effetto della globalizzazione, che arricchisce i paesi meno sviluppati a scapito dei più sviluppati.
Secondo il New York Times, il volume del commercio globale è rimasto invariato nel primo trimestre del 2016, per poi scendere dello 0,8% nel secondo trimestre, mentre negli Stati Uniti il valore totale delle importazioni e delle esportazioni è sceso di oltre 200 miliardi di dollari nel corso dello scorso anno. Nei primi nove mesi del 2016, il commercio globale è diminuito di 470 miliardi di dollari, cosa mai verificatasi dalla fine della seconda guerra mondiale.
La lenta crescita economica globale è sia causa che la conseguenza di un simile rallentamento. Consumi ridotti e bassi investimenti stanno trascinando a fondo il commercio che, a sua volta, sta rallentando la crescita. Secondo i dati delle Nazioni Unite, gli investimenti delle multinazionali in infrastrutture nel 2015 sono diminuiti per il terzo anno consecutivo.
L’abbandono dell’Unione Europea da parte della Gran Bretagna, ha causato come reazione la minaccia reciproca di nuove misure protezionistiche. Misure che si aggiungerebbero alle 2.100 nuove restrizioni messe in atto dal 2008 da tutti i membri aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Una reazione alla perdita di posti di lavoro e alla stagnazione dei redditi delle classi medio-basse o c’è dell’altro?
Fino ad oggi la globalizzazione accontentava tutti, dalle imprese che perseguivano le opportunità della globalizzazione, da chi delocalizzava la produzione e massimizzava i profitti, a chi esportava know-how o merci in paesi che avevano bisogno di tutto. Naturalmente, i benefici delle imprese ricadevano, più o meno proporzionalmente, anche sui dipendenti e su tutto l’indotto che gira intorno ad ogni azienda.
Ma, proprio quando tutto sembrava andare a gonfie vele, soprattutto per i paesi più sviluppati, è successo quello che, presto o tardi, era impossibile che non accadesse: la Cina e gran parte del sud-est asiatico non vogliono più essere sfruttati da tutto il resto del mondo. Adesso che i salari sono aumentati e le economie sono state indirizzate verso una maggiore consumo di beni di produzione nazionale, questi paesi non sono più disposti ad ingrassare i ricchi occidentali in cambio di lavoro.
La crescita globale sta portando il commercio ad essere meno globale e il commercio non apporta più nulla alla crescita globale.
La globalizzazione ha fatto il suo tempo ma, certamente, non saranno le ricette populiste o il ritorno ad un passato fatto di misure protezioniste che porteranno a migliorare le nostre economie e a far crescere i nostri standard di vita.
Che sia arrivato il momento di trovare il coraggio per intraprendere nuove strade, più intelligenti e sagge, per progettare il nostro futuro?