La moneta cinese, il renminbi, è in ribasso dalla scorsa primavera. Ma questa settimana la valuta ha infranto la barriera psicologica di 7 contro il dollaro (ha toccato 7,1114), un livello mai visto negli undici anni trascorsi dalla crisi finanziaria.
Naturalmente, le tensioni commerciali USA–Cina hanno fatto la loro parte nell’indebolire la moneta cinese. L’annuncio della scorsa settimana che gli Stati Uniti avrebbero daziato del 10% altri 300 miliardi di dollari di beni cinesi, ha provocato forti svendite da parte degli investitori in cerca di paradisi più sicuri ed ha sollevato preoccupazioni in Cina per una fuga di capitali.
La Banca Popolare Cinese (PBoC) viene accusata da Washington di manipolazione della valuta. In realtà sta soltanto cercando di proteggere la propria moneta dalla svalutazione del mercato.
Quanto dobbiamo preoccuparci?
Come noto, i movimenti delle valute più importanti del mondo incidono anche sui nostri costi e sui nostri interessi commerciali, a volte in modo inaspettato.
Per esempio, per chi importa beni cinesi, la debolezza del renminbi potrebbe essere una buona notizia, in quanto può beneficiare di prezzi più bassi. Al contrario, per gli esportatori in Cina, i prezzi in renminbi saranno più alti, scoraggiando i consumatori cinesi dall’acquisto.
Ma l’effetto della svalutazione dello yuan si estende oltre il semplice commercio internazionale.
I soldi che scappano dalla Cina si riversano in paradisi sicuri come lo yen. Infatti, la valuta giapponese ha raggiunto i 105,99 dollari, il suo livello più alto dall’inizio del 2018. Di conseguenza, uno yen più forte renderà le merci importate dal Giappone più costose per i consumatori stranieri.
Non sorprende che tutti questi sconquassi abbiano spaventato i mercati azionari. Purtroppo, i peggiori timori dei mercati si stanno avverando: la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e il gigante asiatico si sta trasformando in una guerra valutaria.
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