Dove stanno andando i capitali globali?

Cosa c’è di meglio che guardare dove si stanno muovendo i capitali globali, per capire se ci attende una nuova crisi finanziaria? Ecco l’analisi del Financial Times.

Come titolava un famoso film del 2010 su Wall Street, il denaro non dorme mai. Ma oggi, dove stanno soffiando i venti dei capitali globali?

Sappiamo tutto di perturbazioni meteorologiche, di cicloni e anticicloni, per prevedere se domani pioverà o ci sarà il sole, ma non sappiamo nulla di come si sta muovendo il denaro nel mondo. Di conseguenza, chi non dispone di queste informazioni sui capitali globali non potrà mai prevedere se “domani” ci sarà bel tempo o se ci sarà un uragano, finanziariamente parlando.

Perciò, l’articolo pubblicato dal Financial Times su come si sono mossi i flussi finanziari dopo la crisi iniziata nel 2007, è particolarmente interessante. Tutto parte da una ricerca del McKinsey Global Institute, che analizza come i prestiti bancari, in particolare quelli trans-frontalieri europei, si siano ridotti e siano stati parzialmente sostituiti da investimenti in assets aziendali.

Questo, di norma, è una buona cosa. Gli investimenti diretti esteri sono di solito più produttivi se orientati verso le fabbriche o verso altre strutture aziendali. Tuttavia, le preoccupazioni nascono dal fatto che il fattore principale dell’espansione degli investimenti diretti esteri è stato il flusso di investimenti prenotato dai centri finanziari. Cosa vuol dire? Semplicemente, che gli investimenti sono finiti in paesi dove le tasse sono più basse, come per esempio in Irlanda. Molti di questi soldi rappresentano un trasferimento di profitti in paesi dove il fisco è più leggero.

Gli investimenti scivolano verso i paesi a bassa tassazione

Nel complesso, secondo il Financial Times, i flussi di capitale trans-frontalieri sono diminuiti in modo significativo rispetto a quando è iniziata la crisi finanziaria mondiale. I 4,3 miliardi di dollari dello scorso anno nel mondo, sono stati soltanto un terzo di quanto erano nel 2007 (12,4 miliardi di dollari).

Non che tornare ai livelli pre-crisi sia una buona idea, dal momento che era tutta liquidità che arrivava sul mercato degli Stati Uniti dalla Cina e da altri mercati emergenti che esportavano petrolio e che aveva contribuito a creare quella bolla finanziaria scoppiata nel 2007. Ma che le imprese stiano spostando miliardi di dollari offshore per evitare di pagare le tasse nel proprio paese (Apple), non è una cosa sana.

Inoltre, in questo decennio, anche il saldo dei capitali ha subito importanti cambiamenti. All’epoca della crisi finanziaria, la Cina aveva il maggior surplus economico del mondo, mentre gli Stati Uniti avevano il maggior surplus commerciale. Oggi, gli squilibri dell’economia globale si sono spostati. Sono il Giappone e la Germania ad avere i maggiori surplus commerciali.

Infine, cosa non troppo sorprendente, il ruolo delle economie mature è in calo rispetto ai mercati emergenti. Le economie sviluppate stanno inviando meno denaro all’estero sotto forma di investimenti diretti e la loro quota, sempre in termini di investimenti diretti, è in calo. La Cina, al contrario, è in crescita.

Ecco perché Europa e Stati Uniti reagiscono piuttosto male quando le imprese cinesi acquistano società occidentali famose o strategiche, facendo il possibile per frapporre ostacoli legali che possano impedire le acquisizioni targate Pechino.

Anche se Stati Uniti e Regno Unito rimangono le principali destinazioni mondiali per i flussi finanziari internazionali, il loro predominio incontrastato potrebbe essere destinato a tramontare.

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