Crisi ex Ilva: lo stato italiano si è smarrito nella babele dell’acciaio

L’ex Ilva sta affondando, mentre la burocrazia rallenta gli interventi urgenti. Il governo appare incapace di offrire una direzione chiara.

La crisi dell’ex Ilva – oggi Acciaierie d’Italia – ha assunto i contorni di una tragedia industriale che si ripete, con protagonisti sempre nuovi ma un copione invariabilmente confuso. L’incidente all’altoforno 1 di Taranto, l’aumento drammatico della cassa integrazione, le incertezze sulle trattative con gli investitori stranieri e la gestione titubante del governo delineano uno scenario dove l’unica costante sembra essere l’incapacità dello stato di agire con chiarezza e determinazione.

Aumenta la cassa integrazione, crolla la produzione

L’ultimo colpo al fragile equilibrio dell’acciaieria è arrivato il 7 maggio, quando un incendio ha messo fuori uso l’altoforno 1. L’impianto, già sotto sequestro probatorio, è stato interdetto “senza facoltà d’uso” dalla Procura di Taranto, azzerando di fatto metà della capacità produttiva del sito. La risposta aziendale è stata immediata: aumento della cassa integrazione straordinaria, che coinvolgerà oltre 4.000 lavoratori, 3.538 dei quali solo a Taranto. Un numero che potrebbe salire a 5.500, pari alla metà dell’intero organico del gruppo.

Nel frattempo, con il solo altoforno 4 operativo, la produzione crolla. Gli obiettivi rivisti al ribasso per il 2025 – 4 milioni di tonnellate – appaiono già oggi irraggiungibili. Il ministro Urso ha ammesso che l’altoforno 1 è “verosimilmente compromesso”. Una situazione che aggrava la precarietà dell’intero impianto e compromette qualsiasi credibilità industriale residua.

La burocrazia che inceppa la macchina

L’ennesima frizione tra azienda e istituzioni si consuma sui tempi di autorizzazione per i lavori di messa in sicurezza. Acciaierie d’Italia accusa la Procura di aver autorizzato l’intervento troppo tardi, causando danni irreversibili. La Procura risponde seccamente: autorizzazione concessa “a distanza di 2 ore dal deposito dell’ultima istanza”. L’azienda replica: mancava l’autorizzazione al colaggio dei fusi, operazione ritenuta vitale per evitare la fermata definitiva dell’impianto.

Al netto delle versioni contrapposte, resta l’amara evidenza di un sistema in cui i tempi e i metodi dell’azione pubblica, anziché prevenire il disastro, sembrano alimentarlo. E mentre i tecnici si contendono le responsabilità a colpi di verbali, gli operai vengono messi in cassa integrazione.

Trattative congelate, investitori in fuga

Il colpo inferto all’altoforno ha congelato anche le trattative con Baku Steel, il gruppo azero che si era detto interessato a rilevare l’ex Ilva. Secondo indiscrezioni, la trattativa è “in stallo” e potrebbe addirittura saltare. Oltre ai dubbi sulla tenuta produttiva dell’impianto, pesano gli ostacoli infrastrutturali: l’impossibilità di realizzare un rigassificatore a Taranto per ridurre i costi energetici e, non da ultimo, le perplessità del governo sull’ingresso dell’Azerbaigian nel sistema energetico nazionale.

Intanto, altri potenziali acquirenti si defilano: Jindal ha abbandonato il tavolo, mentre i contatti con la cinese Baosteel sembrano più una mossa disperata che una strategia. Anche qui, lo stato non si distingue per visione o autorevolezza, ma sembra piuttosto rincorrere gli eventi.

Sindacati e Confindustria lanciano l’ennesimo allarme

Le sigle sindacali lanciano l’ennesimo grido d’allarme. Per Uilm, Fiom e Usb non è più tempo di attese: chiedono la gestione diretta da parte dello stato e l’avvio immediato del processo di decarbonizzazione. Anche Confindustria Taranto denuncia “l’assenza di dialogo e fiducia”, parlando apertamente di una “situazione che si aggrava minuto per minuto e che rischia di deflagrare”.

Si registra tuttavia una surreale assenza di risposte concrete. L’unica certezza è l’arrivo dei 100 milioni di euro del prestito ponte, autorizzati dalla Commissione Europea. Ma sono fondi-tampone, utili forse a pagare stipendi e bollette, ma del tutto insufficienti a tenere in vita un gigante industriale morente.

Un nodo irrisolto da anni

La crisi dell’ex Ilva è lo specchio deformato di un’Italia che si affida a commissari straordinari, prestiti temporanei e trattative opache per risolvere nodi che richiederebbero scelte nette, trasparenza e pianificazione industriale. Lo stato si muove goffamente in una partita che avrebbe dovuto guidare, lasciando che burocrazia e lentezze procedurali si trasformino in sabbie mobili.

Oggi Taranto è sospesa nel vuoto, tra impianti bloccati, lavoratori in cassa e nessuna prospettiva. E lo stato, più che arbitro, sembra un giocatore distratto che ingarbuglia ogni azione, mentre l’acciaieria più grande d’Europa rischia il collasso definitivo.

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