Perché a nessuno interessa la crisi in cui versa la nostra industria?

L’industria italiana è in crisi, tra calo della produzione, mancati investimenti e burocrazia soffocante, ma il problema sembra essere ignorato da politica e opinione pubblica, mentre il rischio di una pericolosa deindustrializzazione si fa sempre più concreto.

L’Italia industriale è in affanno. Nonostante i segnali di allarme siano evidenti da mesi, la crisi sembra non preoccupare come dovrebbe. La produzione è in calo da oltre un anno, il fatturato crolla e le prospettive future sono tutt’altro che rosee.

Il settore manifatturiero, un tempo motore dell’economia italiana, è in profonda difficoltà. I dati Istat parlano chiaro: la produzione industriale è in contrazione, con cali significativi in settori chiave come l’automotive, la meccanica e il tessile. Le cause sono molteplici: dalla concorrenza globale sempre più agguerrita alla mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo, passando per la burocrazia asfissiante, la difficoltà nel reperire le competenze necessarie e gli insostenibili costi dell’energia.

Molti operatori sono pessimisti sul futuro dell’industria italiana

La domanda sorge spontanea: perché un problema così grave non sembra preoccupare l’opinione pubblica e i decisori politici? Forse perché ci si concentra troppo sui dati positivi delle esportazioni, che però rischiano di essere un fuoco di paglia? Forse perché si preferisce cullarsi in un ottimismo di facciata, sottovalutando la gravità della situazione?

La scorsa settimana è stata presentata un’indagine previsionale condotta da Swg e Fb&Associati, che per fotografare le aspettative dell’industria e della finanza nel 2025. Secondo questa ricerca, il 78% degli intervistati esprime pessimismo sul futuro dell’industria, con particolare preoccupazione per il settore metalmeccanico. Al contrario, il 58,2% ritiene che il 2025 sarà ancora un anno positivo per la finanza e i mercati finanziari. Un divario netto che riflette una tendenza già in atto: mentre il comparto industriale va male, la finanza continua a beneficiare di un buon andamento dei mercati, sebbene l’influenza dell’Italia e dell’Europa in questo settore si stia progressivamente riducendo.

Rischiamo di perdere un patrimonio inestimabile

Dopo gli allarmi lanciati da molti imprenditori ed economisti, ci accodiamo nel ricordare sinteticamente quali sono le conseguenze di una crisi industriale come quella che il nostro paese sta attraversando. Ovviamente, la perdita di posti di lavoro, con un aumento della disoccupazione, soprattutto nelle regioni più industrializzate. A ciò si aggiunge un declino del tessuto sociale visto che la chiusura delle fabbriche e la perdita di reddito hanno un impatto negativo sulla coesione sociale e sul benessere delle comunità locali. Infine, una vera e propria deindustrializzazione, con il paese che perderà la sua vocazione industriale, con conseguenze disastrose per la competitività dell’Italia a livello internazionale.

È imbarazzante pensare che gli ingredienti della ricetta per risolvere la crisi sono noti da tempo, ma il nostro sistema politico e i vertici della burocrazia statale non ne vogliono proprio sentir parlare: semplificazione burocratica, investimenti in ricerca e sviluppo, formazione professionale, sostegno alle piccole-medie imprese (sono il cuore dell’industria italiana), collaborazione tra pubblico e privato, sgravi fiscali per l’energia industriale (che attualmente si fa carico della maggior parte degli oneri derivanti dal sostegno all’energia verde).

Si fa un gran parlare del patrimonio artistico italiano, con politici e giornalisti che sproloquiano a riguardo, raccontando come sfruttarlo per creare ricchezza per il paese. Ma a nessuno viene in mente che la nostra industria è un patrimonio inestimabile che non possiamo permetterci il lusso di perdere? Sarebbe tempo di agire con determinazione per salvare il nostro futuro industriale ma, a quanto pare, a nessuno interessa neppure sentir parlare del problema.

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