Emigrare per fame. La storia dimenticata dei minatori italiani in Belgio

Entravano in un buco nel terreno quando era buio e ne uscivano che era ancora buio. I più fortunati si ritrovavano dopo anni con i polmoni pieni di carbone. Una storia drammatica di veri eroi.

Per fortuna, il termine emigrare è stato sostituito con il più moderno espatriare. Gli espatriati sono i cosiddetti cervelli in fuga o quei giovani che provano un lavoro all’estero con in tasca un biglietto aereo di andata e ritorno, ma anche con dei genitori che (oltre a pagargli il viaggio) li aspettano quando l’esperienza da espatriati dovesse rivelarsi troppo noiosa o faticosa.

Gli emigrati non hanno proprio nulla a che vedere con gli espatriati. Anche se la gente ha la memoria corta, non è proprio possibile dimenticare la storia dei veri emigrati italiani. Tra loro ci sono tutti coloro che, nell’immediato dopoguerra, partirono per andare a lavorare nelle miniere di carbone in Belgio. Una pagina della nostra storia recente che ha toccato la vita di molte famiglie italiane, ma che sta finendo nel dimenticatoio.

L’accordo uomo-carbone

Il fenomeno dell’emigrazione italiana in Belgio fu favorito da un’intesa (1946 e 1947) tra il governo italiano e quello belga per il trasferimento di 50.000 minatori dall’Italia al Belgio. Per ogni mille minatori italiani il governo belga si era impegnato a vendere mensilmente al nostro paese un minimo di 2.500 tonnellate di carbone.

L’intesa è passata alla storia come l’accordo uomo-carbone. Le condizioni del contratto tra lavoratore e miniera prevedevano una durata di 5 anni, di cui uno tassativamente obbligatorio, pena l’arresto. Qualcosa che ai nostri occhi sembra crudele e inaccettabile, che ha indotto qualcuno a dire che la politica è più sporca del carbone, ma che in quel contesto storico aveva una ragione d’essere. E, soprattutto, ha contribuito al benessere che la società italiana avrebbe raggiunto nei decenni successivi.

I flussi migratori alla fine della Seconda Guerra Mondiale avvenivano per lo più in un quadro di accordi bilaterali. Erano questi accordi che pianificavano abbastanza rigidamente gli spostamenti dei lavoratori.

Fu proprio il governo italiano a guida De Gasperi a puntare sull’esportazione di manodopera per ridurre l’altissima disoccupazione. Addirittura, De Gasperi era pronto a rinunciare agli aiuti degli americani in cambio della libertà di far emigrare i disoccupati italiani. Perché? I soldi che gli emigrati mandavano in patria sarebbero arrivati subito, mentre quelli del Piano Marshall avrebbero dato dei benefici economici in tempi molto più lunghi.

Un’incubo a mille metri sotto terra

Ma tornando ai minatori italiani, non si può dimenticare quali fossero le condizioni nelle quali si trovarono. A parte il trauma dell’impatto con la miniera e con un lavoro che li portava anche a più di mille metri di profondità, l’inesperienza e la mancanza di un periodo di formazione spingevano molti a rifiutarsi di scendere nella miniera.

Gli alloggi dei lavoratori si trovavano in ex campi di concentramento ed erano baracche di legno con letti a castello, materassi di paglia e biancheria sudicia. Anche il salario era nettamente inferiore a quanto promesso nell’accordo bilaterale. Infatti, una parte era legata al lavoro a cottimo, cosa che spingeva i minatori a risparmiare tempo a discapito delle procedure di sicurezza.

Inevitabile il verificarsi di incidenti, il più drammatico dei quali avvenne nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle. In un incendio scoppiato l’8 agosto 1956, morirono 262 operai, tra cui 136 minatori italiani.

Nell’epoca degli influencer che estraggono fama e denaro dalla miniera dei social media, ammirati e invidiati da un numero enorme di persone quasi fossero eroi o esempi da seguire, ci farebbe molto bene ripensare a quelli che sono stati dei veri eroi, che lavoravano in condizioni di pericolo estremo, e qualche volta morivano, per dare un po’ di benessere alle proprie famiglie e a tutta l’Italia.

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