La Cina ha annunciato ieri una serie di misure di ritorsione contro gli Stati Uniti, imponendo restrizioni all’export di cinque metalli essenziali per la difesa, l’energia pulita e altri settori industriali. La decisione arriva in risposta alla recente imposizione da parte di Donald Trump di un dazio aggiuntivo del 10% su tutte le importazioni cinesi.
Le nuove regole cinesi riguardano tungsteno, tellurio, bismuto, indio e molibdeno. Secondo il governo di Pechino, le esportazioni di questi materiali saranno consentite solo alle aziende che rispetteranno “regolamenti pertinenti”, senza però specificare i criteri precisi di conformità.
L’impatto dovrebbe essere limitato, a parte il tungsteno
Va considerato che queste nuove misure, per quanto importanti, non hanno la stessa portata del blocco delle esportazioni di minerali critici imposto da Pechino agli Stati Uniti lo scorso dicembre, che includeva gallio, germanio, antimonio e materiali superduri.
Probabilmente, le nuove restrizioni avranno un impatto minimo sulle industrie americane. Ad esempio, secondo i dati più recenti dello US Geological Survey (USGS), gli Stati Uniti producono già in grandi quantità il molibdeno, metallo utilizzato per rafforzare l’acciaio e ridurre la corrosione, e dipendono in minima parte dalle importazioni cinesi.
Allo stesso modo, i dazi americani del 25% su indio e tungsteno in vigore dallo scorso anno, hanno già spinto gli importatori statunitensi a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento. Negli ultimi quattro anni, meno del 10% delle importazioni statunitensi di indio proveniva dalla Cina, con Corea del Sud, Giappone e Canada che sono diventati fornitori chiave.
Nonostante la minore dipendenza da Pechino per alcuni materiali, permangono delle fragilità. Gli Stati Uniti hanno cessato l’estrazione di tungsteno nel 2015 e non producono bismuto raffinato dal 1997, dipendendo interamente dalle importazioni per entrambi i materiali.
Sebbene la quota di importazioni di tungsteno dalla Cina sia in calo, il paese asiatico resta il fornitore principale. Eventuali interruzioni improvvise potrebbero quindi avere conseguenze significative per le industrie americane che dipendono da questo metallo.
Un conflitto commerciale senza fine?
Oltre alle restrizioni sui metalli, il ministero delle finanze cinese ha annunciato nuovi dazi sulle importazioni statunitensi. A partire dal 10 febbraio, Pechino applicherà un’aliquota del 15% su carbone e gas naturale liquefatto (LNG), oltre ad aumentare del 10% le tariffe su petrolio greggio, macchinari agricoli e alcune categorie di automobili provenienti dagli USA.
Nel frattempo Trump ha ordinato di riesaminare il rispetto da parte della Cina dell’accordo commerciale raggiunto nel 2020. Gli economisti prevedono che i risultati di questa revisione, attesi per il 1° aprile, potrebbero aprire la strada a nuove misure tariffarie.
Già nel 2018, Trump aveva lanciato una dura guerra commerciale contro la Cina, imponendo dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci per contrastare il forte surplus commerciale di Pechino nei confronti di Washington. Il conflitto aveva scosso le catene di approvvigionamento globali e messo sotto pressione l’economia mondiale.
Nel 2020, la Cina aveva accettato di acquistare 200 miliardi di dollari in beni statunitensi per porre fine alla guerra commerciale. Tuttavia, la pandemia di Covid-19 ha ostacolato l’attuazione dell’accordo e nel 2023 il disavanzo commerciale tra i due paesi ha raggiunto i 361 miliardi di dollari (dati doganali cinesi di dicembre).
Le nuove misure adottate da entrambe le parti segnalano un’escalation delle tensioni economiche e commerciali tra le due maggiori potenze mondiali, con ripercussioni potenzialmente globali.
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