Dopo l’impennata record della scorsa settimana, innescata dagli attacchi israeliani contro impianti nucleari iraniani, i prezzi del petrolio hanno continuato a salire, nonostante una flessione a inizio di questa settimana (oggi, 18 giugno, il Brent quota 76,45 dollari al barile). Tuttavia, i mercati sembrano ancora relativamente tranquilli, convinti che lo scenario peggiore — una grave interruzione dell’offerta petrolifera dal Medio Oriente — non si sia (ancora) concretizzato.
È quanto accaduto anche in passato: durante precedenti fiammate tra Israele e Iran, il timore di un’interruzione dei flussi petroliferi ha fatto salire i prezzi, ma poi gli eventi si sono rivelati gestibili. Ad oggi, nessuna infrastruttura energetica è stata colpita e lo Stretto di Hormuz, da cui transita circa un quinto del greggio mondiale, resta aperto e sicuro.
Il timore che non si vede (ancora) nei prezzi
Venerdì scorso, dopo il raid israeliano contro impianti di arricchimento dell’uranio, il Brent è schizzato del 13% intraday, per poi chiudere con un +7%. Lunedì i prezzi sono rientrati sotto i 75 dollari al barile, segnale che i trader non vedono un rischio immediato per l’offerta globale. Persino i prezzi fisici del greggio di Dubai, consumato in Asia, sono aumentati meno rispetto ai futures del Brent, riflettendo un sentiment più pacato da parte degli acquirenti effettivi rispetto agli speculatori.
Nonostante le minacce di Teheran, lo Stretto di Hormuz non è mai stato chiuso, nemmeno nei momenti più critici. Gli analisti restano scettici sul fatto che l’attuale crisi possa sfociare in una chiusura reale del passaggio strategico.
Tutto potrebbe cambiare in un istante
Tuttavia, questo equilibrio precario potrebbe spezzarsi bruscamente. Gli analisti di RBC Capital Markets avvertono che il rischio per le infrastrutture energetiche è concreto e crescente. Se le ostilità dovessero intensificarsi e colpire obiettivi come l’isola iraniana di Kharg — da cui partono il 90% delle esportazioni petrolifere iraniane — o impianti in Iraq, le conseguenze sul mercato petrolifero sarebbero dirompenti.
Un attacco diretto degli Stati Uniti, in particolare contro la centrale nucleare iraniana più importante, rappresenterebbe il vero punto di rottura. In tale scenario, la chiusura dello Stretto di Hormuz diventerebbe una possibilità reale, con il prezzo del greggio che potrebbe schizzare anche oltre i 200 dollari al barile.
Al momento, i prezzi restano stabili nella fascia dei 70-80 dollari. Ma questa calma nei mercati riflette un’ipotesi ottimistica: che il conflitto resti circoscritto e che gli Stati Uniti evitino un coinvolgimento diretto. Tuttavia, come sottolineato da diversi esperti, ci troviamo di fronte a due scenari: o tutto resta sotto controllo con una correzione al ribasso dei prezzi, oppure un singolo evento bellico potrebbe scatenare un’impennata violenta del petrolio.
Nonostante la calma apparente dei mercati, il rischio che l’energia finisca nel mirino resta elevato. La “guerra del petrolio” potrebbe non essere ancora cominciata. Ma se lo Stretto di Hormuz venisse davvero minacciato o se Washington decidesse di colpire obiettivi strategici in Iran, allora i mercati smetterebbero all’istante di sottovalutare il pericolo.
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