Dal 1945 al 1991, la Guerra Fredda ha tenuto il mondo in bilico, con il blocco comunista dell’Est e quello capitalista dell’Ovest separati dalla Cortina di Ferro, pronti a un confronto nucleare che avrebbe potuto annientare la civiltà umana. La strategia della “Distruzione Mutua Assicurata” (MAD) prevedeva arsenali di aerei, sottomarini e missili armati con testate nucleari, in un equilibrio precario dove un errore poteva scatenare una catastrofe.
Tra i numerosi incidenti che hanno rischiato di rompere questo equilibrio, uno dei più gravi e meno noti avvenne nel 1968 a Thule, in Groenlandia, quando un aereo statunitense si schiantò, minacciando un disastro ecologico nell’Artico e mettendo in crisi i rapporti tra due alleati NATO.
Un mondo sull’orlo del baratro
Il 4 ottobre 1957, il lancio del satellite sovietico Sputnik 1 cambiò per sempre la storia. Questo piccolo oggetto, capace solo di trasmettere segnali radio, dimostrò che l’Unione Sovietica possedeva missili balistici intercontinentali (ICBM) in grado di colpire gli Stati Uniti in 30 minuti, senza possibilità di intercettazione.
La paura di un attacco a sorpresa spinse il generale Thomas Power, comandante dello Strategic Air Command (SAC), a introdurre nel 1958 un sistema di allerta aerea: una flotta di bombardieri B-52 Stratofortress armati di bombe nucleari sarebbe rimasta in volo 24 ore su 24. L’operazione più imponente, chiamata Chrome Dome, iniziata nel 1960, vedeva fino a dodici B-52 seguire rotte strategiche vicino al territorio sovietico, pronti a colpire in caso di ordine. Queste missioni, che potevano durare fino a 24 ore grazie al rifornimento in volo, erano estenuanti ma essenziali per garantire una capacità di rappresaglia.
Groenlandia: un avamposto strategico
Nel 1961, a Chrome Dome si aggiunse la missione Thule Monitor, che prevedeva un singolo B-52 in orbita sopra la Baia di Baffin per monitorare la base aerea statunitense di Thule, in Groenlandia. Situata a metà strada tra Washington e Mosca, la Groenlandia era di cruciale importanza strategica.
Nel 1946, gli Stati Uniti avevano persino cercato di acquistarla, ma il rifiuto danese non impedì la costruzione della base di Thule tra il 1951 e il 1953. Nel 1958, la base divenne sede del Ballistic Missile Early Warning System (BMEWS), un sistema radar per rilevare attacchi sovietici attraverso il Polo Nord. La missione Thule Monitor serviva a verificare che la base fosse operativa, distinguendo un attacco sovietico da semplici problemi tecnici.
Il disastro di Palomares
Le operazioni di Chrome Dome non erano prive di rischi. Il 17 gennaio 1966, un B-52 si scontrò con un aereo cisterna KC-135 durante un rifornimento sopra il Mediterraneo, vicino alla Spagna.
L’esplosione uccise l’equipaggio della cisterna e disperse quattro bombe termonucleari B28, ciascuna con una potenza di 1,1 megatoni. Due bombe esplosero al suolo, contaminando con plutonio una vasta area vicino al villaggio di Palomares (Spagna). Una terza cadde in mare e fu recuperata solo dopo mesi di ricerche.
Questo incidente rivelò i pericoli di Chrome Dome, spingendo il Segretario alla Difesa Robert McNamara a chiederne la cancellazione, ma l’operazione fu solo ridimensionata, mantenendo la missione Thule Monitor.
Il disastro annunciato di Thule
Il 21 gennaio 1968, alle 12:00, il B-52G HOBO 28 decollò dalla base di Plattsburgh, New York, diretto a Thule. A bordo c’erano sette uomini e quattro bombe atomiche B28. Dopo un rifornimento in volo senza problemi, l’aereo iniziò la sua orbita sopra la Baia di Baffin. Ma un problema al sistema di riscaldamento trasformò la missione in una tragedia. Per scaldare l’abitacolo, il maggiore Alfred D’Amario aprì una valvola che riversava aria calda dai motori, ma un malfunzionamento fece salire la temperatura a livelli insopportabili. Alle 18:22, l’ufficiale Richard Marx segnalò odore di gomma bruciata: un incendio era scoppiato sotto il sedile del navigatore, causato da cuscini infiammati dal calore.
Il fumo invase la cabina, e nonostante gli sforzi dell’equipaggio per spegnere le fiamme, il fuoco si propagò. Alle 18:30, un corto circuito disattivò i sistemi elettrici. Il pilota, capitano John Haug, diresse l’aereo verso Thule per un atterraggio di emergenza, ma alle 18:37 ordinò l’abbandono. Sei uomini si eiettarono, ma il copilota Leonard Svitenko morì tentando di uscire da un portello. L’aereo senza pilota si schiantò sul ghiaccio della Baia di North Star a 900 km/h, esplodendo in una palla di fuoco. Le cariche convenzionali delle bombe detonarono, disperdendo plutonio sul ghiaccio, senza però innescare un’esplosione nucleare.
Grazie alla perizia di Haug, cinque membri dell’equipaggio atterrarono vicino alla base di Thule. Il vicecomandante Paul Copher organizzò una squadra di ricerca, ma le condizioni estreme (buio, ghiaccio irregolare e temperature di -30°C) resero l’operazione ardua. Jens Zinglersen, rappresentante locale del Royal Greenland Trade Department, mobilitò squadre di Inuit groenlandesi con slitte trainate da cani, che salvarono tre uomini in poche ore. Il corpo di Svitenko fu trovato dopo otto ore, mentre il mitragliere Calvin Snapp, atterrato a 10 chilometri dalla base, fu recuperato dopo 21 ore, vivo ma con ipotermia. Zinglersen fu poi insignito della medaglia al merito civile dell’USAF.
Una crisi diplomatica e ambientale
L’incidente, classificato come “Broken Arrow” (un grave incidente nucleare senza rischio di guerra), fu un disastro diplomatico. La Danimarca, che dal 1957 vietava armi nucleari sul proprio territorio, non era stata informata delle missioni Chrome Dome sopra la Groenlandia. L’USAF considerava le operazioni lecite in base a un accordo del 1951, ma l’incidente, avvenuto a ridosso delle elezioni danesi, rischiava di scatenare uno scandalo. L’ambasciata statunitense a Copenaghen insistette per presentare l’incidente come una deviazione imprevista, una versione che rimase ufficiale per anni.
Il sito dello schianto era devastato: detriti sparsi su 75 km², ghiaccio annerito dal carburante e contaminato da plutonio e uranio. Inizialmente si pensò che l’aereo fosse affondato, ma l’impatto e l’esplosione avevano disintegrato il velivolo. Quattro giorni dopo, esperti americani e danesi si riunirono per pianificare la decontaminazione. I danesi chiesero la rimozione totale del ghiaccio contaminato, ma accettarono un piano più limitato: rimuovere il ghiaccio dell’impatto e la crosta nera, recuperando il 90% della contaminazione. Il resto sarebbe stato diluito nell’acqua della baia.
Operazione Crested Ice: una corsa contro il tempo
L’operazione di cleanup, chiamata Project Crested Ice e soprannominata “Dr. Freezelove”, fu guidata dal generale Richard Hunziker. Un campo base, Camp Hunziker, fu costruito vicino al sito, con dormitori, eliporto e strade di ghiaccio. Circa 700 tra militari, civili e Inuit parteciparono, usando metodi primitivi come slitte per affrontare un disastro tecnologicamente complesso. La rimozione dei detriti iniziò a febbraio, seguita dalla raschiatura del ghiaccio contaminato, raccolto in contenitori e stoccato nella “tank farm” di Thule. Le condizioni estreme causarono guasti continui, ma l’operazione recuperò 400 m³ di materiale contaminato, spedito negli Stati Uniti per lo stoccaggio.
Ma solo tre delle quattro bombe atomiche furono recuperate. La quarta, si ipotizzò, era affondata nella baia. Nell’agosto 1968, una missione segreta con un sottomarino Star III cercò l’arma, ma senza successo. Ufficialmente, l’USAF dichiarò che tutte le bombe erano state distrutte.
Conseguenze a lungo termine
Il giorno dopo l’incidente, McNamara ordinò la rimozione delle armi nucleari dai voli di allerta, ponendo fine a Chrome Dome. L’incidente rivelò il rischio di una crisi nucleare accidentale: uno schianto sui radar BMEWS avrebbe potuto essere interpretato come un attacco sovietico. Ciò portò nel 1971 a un accordo USA-URSS per notificare incidenti simili e a miglioramenti alla linea diretta Mosca-Washington.
In Danimarca, l’incidente fu inizialmente dimenticato, ma nel 1987 la stampa rivelò che una bomba poteva essere ancora nella baia. Un rapporto del 1995 del Danish Institute of International Affairs (DUPI) confermò che il governo danese sapeva delle missioni Chrome Dome, scatenando lo scandalo “Thulegate”. Documenti desecretati rivelarono che armi nucleari erano state stazionate a Thule, violando la politica danese. Questo erose la fiducia nei confronti del governo.
L’impatto ambientale e umano
Studi hanno rilevato livelli elevati di plutonio fino a 20 chilometri dal sito, con concentrazioni negli animali marini fino a 3000 volte superiori alla norma. Tuttavia, i modelli attuali suggeriscono un rischio ambientale limitato.
Più gravi sono le conseguenze umane. Molti lavoratori del cleanup, come Jeffrey Carswell, denunciarono l’assenza di protezioni adeguate e malattie legate alla radiazione. Uno studio del 1987 rilevò un’incidenza di cancro del 40% superiore tra i lavoratori di Thule. Nel 1995, 410 dei 1500 lavoratori esaminati erano morti di cancro, e 1700 ricevettero un risarcimento di 50.000 corone.
Gli Inuit groenlandesi, che collaborarono al cleanup, denunciano tuttora alti tassi di malattie legate alla radiazione. Cacciatori come Ussaaqqak Qujaukitsoq hanno notato anomalie negli animali marini, ma le loro richieste di giustizia sono state ignorate, aggravando le tensioni con i governi danese e statunitense, già responsabili dello spostamento di villaggi Inuit per costruire la base di Thule.
L’incidente di Thule del 1968 rimane uno dei peggiori disastri nucleari della storia, con conseguenze ambientali, sanitarie e politiche che si protraggono ancora oggi. La base di Thule, oggi Pituffik Space Base, continua a essere un pilastro della difesa aerospaziale nordamericana.
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