In Italia, andare al mare è sinonimo di pagare. Ombrellone, lettino, ingresso e servizi vari: un rituale quasi scontato che, anno dopo anno, si traduce in spese consistenti per famiglie e turisti.
Ma la domanda di fondo rimane una: perché gli italiani si lamentano dei prezzi alti e non del fatto che, a differenza del resto d’Europa, le spiagge siano diventate un affare privato? Perché ci si concentra sulle tariffe esorbitanti e non sul principio stesso che rende a pagamento un bene che dovrebbe essere pubblico, accessibile a tutti, senza barriere economiche?
Un diritto trasformato in privilegio
Le spiagge sono beni demaniali, dunque dovrebbero essere accessibili a chiunque. Eppure, in Italia, oltre il 50% delle aree costiere sabbiose è occupato da stabilimenti balneari a pagamento, con punte che sfiorano l’85-90% in regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania. La conseguenza è che i tratti di spiaggia libera sono sempre più rari, spesso relegati a zone periferiche, difficili da raggiungere, prive di servizi essenziali e in condizioni di scarso decoro. Chi non vuole o non può pagare, si ritrova spesso confinato in spazi marginali, quasi fosse un cittadino di serie B.
Il confronto con altri paesi europei rende ancora più evidente l’anomalia italiana. In Francia l’80% delle spiagge è libero e gratuito; in Spagna e Portogallo gli operatori non hanno concessioni permanenti, ma soltanto autorizzazioni temporanee, con obbligo di rimuovere le strutture a fine stagione. Questo impedisce di privatizzare la costa in maniera permanente, garantendo un equilibrio tra servizi e diritto all’accesso. In Italia, invece, il mare si è trasformato in una rendita sicura per pochi e in un costo obbligato per tutti.
L’origine del “mare privato” italiano
La storia parte da lontano e affonda le radici nel Codice della Navigazione del 1942, che prevedeva concessioni assegnate a chi garantisse un uso conforme all’interesse pubblico. Negli anni ’50 arrivò un regolamento più dettagliato, che introduceva persino la possibilità di opposizioni e osservazioni da parte dei cittadini: un segno che il legislatore aveva ben presente l’importanza del controllo collettivo. Ma il vero punto di svolta fu il 1992, con l’introduzione del famigerato diritto di insistenza: un meccanismo che dava preferenza ai concessionari già presenti, creando di fatto un sistema di proroghe automatiche, difficilmente scalfibile e chiuso a nuove realtà imprenditoriali.
Questa norma, apparentemente innocua, ha bloccato per decenni qualsiasi ricambio, consolidando un sistema di privilegi che ha permesso a famiglie e imprese di mantenere il controllo sulle spiagge a condizioni economiche spesso irrisorie rispetto agli incassi generati. Così, quello che era nato come uno strumento per organizzare meglio l’uso del demanio marittimo, si è trasformato in un vero e proprio business privato, costruito su un bene pubblico che appartiene a tutti.
Italiani rassegnati e silenziosi
Il nodo più sorprendente non è tanto la legge, quanto l’atteggiamento collettivo degli italiani. Ci si indigna per i costi di un lettino o per la pizza troppo cara servita sotto l’ombrellone, ma raramente ci si ribella al fatto che l’accesso stesso alla spiaggia sia a pagamento. Un diritto naturale – quello di godere del mare liberamente – è stato interiorizzato come un lusso da acquistare.
Perché gli italiani accettano passivamente questa stortura? Forse perché il modello degli stabilimenti balneari è stato narrato come parte integrante della cultura del mare italiana, un rituale estivo quasi intoccabile. O forse perché il privilegio di pochi è stato spacciato come un servizio indispensabile per tutti: sicurezza, pulizia, comfort. In realtà, mentre si difende a spada tratta l’interesse dei concessionari, si sacrifica l’interesse collettivo. E il cittadino, abituato a considerare normale pagare per entrare in spiaggia, non si accorge che altrove in Europa il mare resta libero e gratuito.
L’anomalia culturale ed europea
L’Italia rappresenta un unicum in Europa. Un paese che vanta alcune delle coste più belle e visitate del mondo, ma che ne ha privatizzato l’accesso più di chiunque altro. Una situazione che, oltre a ridurre la libertà di scelta dei cittadini, genera anche una concorrenza distorta e penalizzante per il turismo, costretto a confrontarsi con prezzi più alti e spazi ridotti di fruizione libera.
Nonostante questo, la questione raramente entra nel dibattito politico e mediatico. Ci si rassegna, si paga, si accetta. Eppure, mentre in Francia, Spagna e Portogallo le spiagge restano patrimonio collettivo, in Italia continuano a essere un affare protetto, blindato da leggi e proroghe che garantiscono guadagni a pochi e limitazioni a molti.
Forse è arrivato il momento di rovesciare la prospettiva e di smettere di chiedersi quanto costa un lettino e iniziare a domandarsi perché dobbiamo pagare per un diritto che altrove è sacrosanto e gratuito. La questione non è economica, ma culturale e politica. È la differenza tra concepire il mare come un bene comune o come un business privato. E dalla risposta a questa domanda dipende il futuro della nostra libertà di vivere il mare come cittadini e non come clienti.
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