Quanti barili di petrolio servono per un bitcoin?

Anche nello spazio virtuale delle criptovalute quello che conta è qualcosa di molto reale e tangibile: l’energia e i suoi costi.

Le monete tradizionali sono fondamentalmente carta. I bitcoin sono fondamentalmente energia elettrica.

L’industria mineraria dei bitcoin consuma annualmente 22,5 TWh di energia, pari a 13.239.916 barili di petrolio. Stimando che ogni 10 minuti vengano estratti 12,5 bitcoin, significa che il costo medio energetico per ogni bitcoin equivale a 20 barili di petrolio.

È facile capire come l’estrazione di un bitcoin possa essere un’attività fortemente redditizia, con una singola criptomoneta che oggi vale più di 100 barili di petrolio. Ai prezzi attuali, è una delle merci più preziose del pianeta ma, proprio come il petrolio, è redditizio se i costi energetici sono bassi.

La trivella è il computer

Tutte le transazioni in bitcoin che avvengono nel mondo, vengono garantite dai computer dei cosiddetti minatori. Sono loro che competono per ottenere un premio in moneta digitale proveniente dalla rete.

Più potenza di calcolo hanno, e maggiori sono le possibilità di ottenere buoni ricavi. Naturalmente, i guadagni dipendono dai costi energetici per estrarre bitcoin, in altre parole la bolletta elettrica per far funzionare i computer. Per fare un’analogia con quanto avviene nel settore petrolifero, la trivella è il computer e la fratturazione idraulica è eseguita con le punta delle dita che picchiano sulla tastiera.

Per avere un’idea di cosa significhi questo processo energetico, basta pensare che il consumo totale di energia delle attività di mining di bitcoin del mondo è 40 volte più grande di quello che serve per alimentare l’intera rete Visa.

Risulta quindi più facile capire perché la Cina abbia il predominio nelle attività di mining di criptovalute: l’energia elettrica economica. Circa l’85% dei volumi di trading in bitcoin del mondo, proviene dalla Cina.

Computer al fresco

Inoltre, anche se nessuno vuole utilizzare fonti sporche come il carbone, tutta questa elettricità in qualche modo deve pur essere prodotta. In quest’ottica, HIVE Blockchain Technologies, per esempio, un minatore d’oro convertitosi al mining di criptovalute, ha trasferito le sue attività in Islanda, un paese che ha freddo da vendere. Proprio quello che serve ai computer con enormi potenze di calcolo e alle tonnellate di calore che producono. Il raffreddamento naturale islandese è economico e rende questo paese uno dei luoghi più redditizi per le miniere di bitcoin.

Ma a sfruttare tutto il freddo dell’Islanda ci sono anche Genesis Mining Ltd (che sta costruendo il più grande impianto di mining di bitcoin nel mondo), Cloud Hashing e, non potevano mancare, Alphabet (cioè Google) e Facebook.

Con il bitcoin oltre gli 8.000 dollari, il gioco non è più per piccoli minatori con i computer nel garage di casa. Adesso si parla di mining su scala industriale, con investimenti miliardari. Anche se le criptovalute si trovano nello spazio virtuale, stanno diventando altrettanto importanti come il petrolio, il gas, l’oro o qualsiasi altra risorsa

Ma, non va dimenticato che, come per le risorse naturali, anche per per il bitcoin la vera sfida è nel trovare le fonti di energia più economiche per ridurre i costi di mining. Ecco perché la nuova terra promessa sembra sia l’Islanda, il paese del ghiaccio.

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