Banche offshore nell’era della globalizzazione

La globalizzazione offre anche al comune investitore la possibilità di scegliere la giurisdizione fiscale più conveniente, nel pieno rispetto della legge. Ma non tutti lo sanno…

“Home is where money is” (la patria è dove si hanno i soldi). – Adam Starchild

Per molti anni i paradisi fiscali hanno indicato un fenomeno non condiviso dagli assetti normativi di moltissimi paesi, soprattutto dai cosiddetti paesi sviluppati. Questi paesi hanno cercato di arginare in tutti i modi lo sviluppo di banche offshore, per impedire ai propri cittadini di sottrarsi ai controlli e agli obblighi previsti nel proprio sistema normativo.

Paradossalmente, tali tentativi hanno contribuito a pubblicizzare molti paradisi fiscali che, proprio per la loro scarsa trasparenza, risultavano inaccessibili per molte persone. Ciò ha alimentato la volontà di spostare nelle banche offshore ingenti capitali, sia privati che di società, sempre a fini pienamente legali.

Con il passare del tempo il fenomeno ha assunto contorni diversi, ponendo in primo piano l’utilizzo di conti bancari offshore come strumenti imprenditoriali  alternativi da una parte, e come sicurezza patrimoniale dall’altra. Dai grandi gruppi internazionali impegnati nella produzione di prodotti di massa quali automobili, abbigliamento, elettrodomestici, ai grandi gruppi nel settore dei servizi come investimenti immobiliari, risorse energetiche, etc., il paradiso fiscale è diventato uno strumento indispensabile per ottimizzare la gestione delle risorse finanziarie aziendali.

Per il privato, i servizi maggiormente richiesti rimangono le carte di credito anonime e il conto corrente anonimo, presso una banca on-line e offshore. Le banche offshore, dal canto loro, stanno offrendo una gamma di servizi sempre più articolata, per venire incontro alle richieste dei loro clienti. Uno prodotti che viene proposto frequentemente  è il cosiddetto Trust, entità legale che riesce a tenere separati i propri assets dal patrimonio della persona che lo ha creato.

L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) pubblica periodicamente la lista dei paesi considerati paradisi fiscali. L’ultima pubblicazione conteneva 41 nazioni (tra le quali compariva anche San Marino). Queste nazioni sono accusate dall’OCSE di praticare una concorrenza fiscale sleale, cercando di attirare i privati e le società che vogliono evitare di pagare imposte nel proprio paese.

I paesi offshore sono diventati dei sorvegliati speciali e il  G-8 (la società degli otto Paesi più industrializzati del mondo), l’OCSE, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno cominciato a passare al setaccio i rapporti che intercorrono tra i propri cittadini e i paradisi fiscali. Uno degli obbiettivi è di combattere il fenomeno del riciclaggio di denaro da parte delle organizzazioni malavitose. Si spera di ridurre la percentuale di capitali riciclati che ad oggi è stimata dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) tra il 2% e il 5% del prodotto interno lordo mondiale. In questo contesto sono stati identificati 3 gruppi di paradisi fiscali così suddivisi: i paesi che collaborano con le autorità internazionali (tra cui SvizzeraLussemburgo, Irlanda e Isole del Canale), i paesi poco collaborativi (Montecarlo, Gibilterra, Malta) e infine quelli che tendono a sfuggire al controllo internazionale (Liechtenstein, Cipro, Libano, molte isole dei Caraibi e del Pacifico).

Molti osservatori pensano che è difficile fermare gli effetti della globalizzazione. Così come un consumatore può scegliere il prodotto che costa meno su scala mondiale o un’impresa può produrre del paese dove la forza lavoro è più a buon mercato, anche l’investitore e il normale cittadino può scegliersi la patria che costa meno in termini fiscali.

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